Liberaldemocrazia e globalizzazione/L’intervento del Prof. Vincenzo Maggioni

Quel necessario equilibrio fra impresa e welfare

Il Pri ha presentato il suo "manifesto liberaldemocratico" il 7 luglio 2012 presso il Teatro Sala Umberto di Roma. Di seguito l’intervento di uno dei relatori

di Vincenzo Maggioni*

Obiettivo di questo intervento è quello di formulare alcune riflessioni sui processi di liberalizzazione e di regolamentazione dell’economia, tenuto conto che nel pensiero liberaldemocratico il concetto di libertà e il rispetto delle regole rappresentano dei capisaldi culturali fondamentali ed irrinunciabili.

Wikipedia definisce la liberalizzazione come un "processo legislativo che consiste generalmente nella riduzione di restrizioni precedentemente esistenti". E’ una definizione che trovo, in verità, un po’ ….strana, perché si basa sull’esigenza di contrastare un sistema eccessivamente regolamentato caratterizzante alcuni mercati. Forse sarebbe più opportuno affermare le libertà di mercato come principi che stanno alla base dei processi di sviluppo di un sistema economico. Sempre Wikipedia continua distinguendo i processi di liberalizzazione da quelli di privatizzazione, precisando che l’uno non richiede necessariamente l’altro. In Europa, ad esempio, sono intervenuti numerosi processi di liberalizzazione; eppure, in non pochi casi, sono rimasti in piedi imprese ed attività controllate dal soggetto pubblico. In ogni caso questo processo ha un obiettivo: quello di eliminare le rendite ricollegabili ad un’assenza completa di regolamentazione o ad una regolamentazione eccessivamente restrittiva, che finisce per proteggere alcune categorie di soggetti, evitando che si diffondano e si affermino le regole della libera concorrenza.

Al fine di affermare l’importanza e, al tempo stesso, la necessità di dare luogo nel nostro Paese a più coraggiosi interventi di liberalizzazione, soprattutto in alcuni comparti economici, sembra opportuno accennare, anche solo velocemente, agli aspetti principali caratterizzanti la situazione economica italiana e alla natura e diffusione dei processi di globalizzazione.

Per quanto riguarda la situazione economica del nostro Paese, stiamo forse vivendo uno dei momenti di maggiore complessità della nostra storia moderna. L’Italia è caratterizzata da un’evidente fase di declino economico: stiamo attraversando una preoccupante fase di recessione, c’è una grossa crisi occupazionale in un mercato del lavoro rigido, una progressiva diminuzione del PIL, una perdita di competitività dovuta sia a una caduta della produttività che alla scarsa capacità di innovazione del sistema produttivo, un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia che ha portato molti imprenditori a concentrare i propri interessi nell’area della finanza, in alcuni casi con uno scambio di ruoli tra il sistema produttivo-commerciale e quello creditizio. A ciò si aggiunga una struttura produttiva debole, con un’eccessiva concentrazione di attività in settori maturi e una fragile presenza in comparti caratterizzati da elevati tassi di innovazione e di sviluppo delle conoscenze. Ed un’eccessiva presenza di piccole imprese, non sostenute da un tessuto trainante di aziende di grande e – soprattutto - di media dimensione, che in un’economia globalizzata e soggetta a imponenti cambiamenti tecnologici e territoriali, stentano a reggere il passo della competizione mondiale e delle evoluzioni che caratterizzano sia i paesi più sviluppati che quelli in via di sviluppo.

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continua da pag. 1 - A tutto ciò si aggiungano la grossa bolla speculativa finanziaria che, partita dagli Stati Uniti, sta ora coinvolgendo in pieno alcuni Paesi europei, tra cui il nostro, l’insufficiente sviluppo delle infrastrutture e la ridotta concorrenza dei comparti operanti nella fornitura dei servizi alle imprese.

Un antico fenomeno

Relativamente alla globalizzazione, si tratta di un fenomeno che sicuramente non è nato in questi ultimi anni né è frutto di qualche invenzione speculativa nata in qualche dipartimento universitario; dalla storia antica possiamo apprendere che nel mondo c’è sempre stata la voglia dei paesi forti di condizionare e influenzare con le proprie regole l’economia dei Paesi più deboli o meno sviluppati.

Tuttavia, la globalizzazione così come la intendiamo noi oggi è un fenomeno che vede le sue origini nella seconda metà del ‘900. Ripercorrendo velocemente i passaggi fondamentali di tale processo, si possono citare gli accordi di Bretton Woods, il cui obiettivo era quello di costruire un nuovo ordine economico internazionale, da cui nacquero il GATT – General Agreement on Tariffs and Trade - volto a favorire la riduzione progressiva delle tariffe doganali esistenti ed a rendere equivalente il trattamento di tutti i Paesi aderenti all’accordo, la Banca Mondiale, creata per garantire la stabilità dei tassi di cambio tra le diverse valute, e il Fondo Monetario Internazionale, creato per sostenere la ricostruzione post-bellica e lo sviluppo dei paesi più arretrati.

Infine, nel gennaio ‘95 nacque l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, più nota come WTO, cui aderiscono oggi paesi che generano l’85% del commercio mondiale. Il WTO, che rappresenta la più vasta e potente organizzazione internazionale con lo scopo di accelerare il processo di globalizzazione commerciale, viene definita come "il primo vero elemento dell’economia globale di mercato".

Modelli

Non tutti, però, condividono questo modello di sviluppo né le finalità dei processi di globalizzazione, in particolare nell’accezione economica; alcuni movimenti, quali i no-global e i new-global, contestano finalità ed effetti di tali processi.

Una cosa tuttavia è certa: la globalizzazione esiste, il suo processo è ineludibile; con essa tutti devono fare i conti e devono attrezzarsi per cogliere le opportunità e fronteggiare le minacce. Si tratta di un processo che si è progressivamente esteso dall’economia alla cultura, dalla politica alle tecnologie, alle idee, al pensiero, agli aspetti sociali e del mondo del lavoro.

L’esperienza di questi ultimi vent’anni ci ha fatto prendere coscienza che non esistono più grandi barriere alla circolazione di questi elementi del sistema economico-sociale. Ma ci ha anche fatto rendere conto che la globalizzazione restringe i poteri di decisione dello Stato, la sua sfera di autonomia, rendendo necessarie interazioni ed alleanze sovranazionali per dare risposte alle esigenze emergenti dal mercato globale.

Come è stato sottolineato anche dall’on. Nucara, le manovre finanziarie ed economiche degli ultimi anni sono state sollecitate o imposte da organizzazioni politiche o finanziarie internazionali. Ciò ha determinato un indebolimento dei sistemi istituzionali dei diversi Paesi. Il cui obiettivo principale è stato quello di garantire la stabilità dei mercati attraverso il contenimento dell’inflazione e una più coordinata politica monetaria e finanziaria, perdendo in qualche caso di vista l’effetto che tali manovre hanno avuto o potevano avere sulla stabilità sociale.

Il nostro paese, nonostante i molti sforzi fatti negli anni ‘90 in materia di riduzione del controllo dello Stato in alcuni settori economici e di abbattimento delle barriere all’imprenditorialità, è ancora oggi uno dei paesi OCSE con la più alta regolamentazione nei diversi comparti dell’economia. E’ ancora oggi un paese caratterizzato da un’eccessiva presenza dello Stato nell’economia, che non è detto che non sia utile o necessaria in taluni casi. Lascia al riguardo sconcertati il dato sul "capitalismo locale" o "comunale" che dir si voglia. In Italia circa 7.000 aziende sono di proprietà degli Enti Locali, gravando in molti casi sui loro bilanci, con evidenti effetti distorsivi sulle regole di buon funzionamento dei mercati e sull’applicazione dei principi della libera concorrenza. Ne deriva un’esigenza forte di introdurre riforme strutturali, di migliorare le istituzioni economiche, di innovare le regole di funzionamento dei mercati.

Quali regole?

Ma cosa bisogna intendere, in un’ottica liberaldemocratica, per regole e regolamentazione? Sono parole che ricorrono spesso in questo intervento. Regolamentare significa definire un quadro di regole generali che circoscrivono le modalità di funzionamento di un mercato. In tal senso il vocabolo non ha per forza un significato negativo. I mercati, se vogliono, possono anche organizzarsi da soli, soprattutto se si riduce o si annulla l’importanza delle risorse pubbliche necessarie per il loro funzionamento. Ma l’eccessiva libertà può produrre inefficienze, può generare monopoli, può creare strutture che cercano di controllare il funzionamento del sistema. Si possono, cioè, verificare comportamenti opportunistici, condotte speculative, creare rendite di posizione che generano inefficienza, riducendo la spinta alla concorrenza ed all’innovazione.

Bisogna, però, stare attenti a non cadere nel rischio opposto, vale a dire nella sovra-regolamentazione, che comprime la crescita per le troppe regole che ingessano lo sviluppo del sistema, minaccia la qualità dei servizi alle imprese, ostacola l’attrazione di capitali dall’estero respingendo, per i troppi vincoli, gli investimenti delle imprese.

Facendo un sintetico bilancio degli ultimi vent’anni, può sicuramente affermarsi che un certo cammino sulla strada delle liberalizzazioni è stato fatto: si è istituita l’autorità garante della concorrenza del mercato, guarda caso quando il nostro Presidente del Consiglio Monti era commissario all’Unione Europea; sono state recepite diverse direttive europee sulla liberalizzazione di alcuni settori, come gas ed elettricità; sono state istituite altre Autorità nel campo dell’energia elettrica, delle comunicazioni; è stata fatta una timida riforma del commercio; sono state privatizzate molte aziende ed enti pubblici.

Si è trattato, tuttavia, di una liberalizzazione in chiaro-scuro. Sicuramente alcuni comparti sono stati messi in condizione di operare con maggiore efficienza rispetto alle condizioni che li caratterizzavano prima dell’avvio di questi processi; così come si sono realizzate alcune aperture al mercato. Ma è anche vero che i benefici realizzati sono spesso stati inferiori alle aspettative.

I processi di liberalizzazione in molti casi sono stati scoordinati tra loro e scarsamente incisivi, anche per le reazioni che si sono generate da parte di alcune lobby che hanno cercato di tutelare particolari portatori d’interessi. L’assenza, poi, di un sistema di pianificazione complessiva che avesse ben presente il disegno strategico e gli obiettivi generali da perseguire, ha fatto sì che i processi di privatizzazione fossero in alcune circostanze intrapresi senza creare un opportuno raccordo tra liberalizzazioni e privatizzazioni, così consegnando importanti settori dell’economia a monopolisti privati, che hanno portato all’emersione di ulteriori inefficienze e distorsioni del mercato.

False liberalizzazioni

In altri casi ci si è trovati di fronte a "false liberalizzazioni", realizzate a metà, mai completate e, quindi, lontane dal conseguimento di quei risultati che si era dichiarato di volere conseguire nelle fasi di avvio dei relativi processi; in altri termini, molte privatizzazioni hanno consentito allo Stato di "fare cassa" ma non hanno prodotto gli effetti desiderati.

Quanta ipocrisia si è generata in questo campo! Troppi oracoli del liberismo economico sono nati come funghi in questi ultimi anni, impadronendosi di una terminologia ma non di una cultura liberaldemocratica, che ha prodotto dei freni allo sviluppo ed all’affermazione di un vero pensiero liberale che invece alberga con pieno diritto nel mondo repubblicano-liberale.

Vorrei ricordare che uno dei padri storici della liberaldemocrazia italiana - Ugo la Malfa - nel ‘47 condusse la sua battaglia politica per l’articolo 1 della Costituzione. La Malfa voleva un articolo 1 con questa formulazione: "L’Italia è una Repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro". Ed illustrando il suo emendamento sempre l’on. La Malfa diceva: "Il nostro sforzo è consistito nel dare a questa espressione ‘L’Italia è una Repubblica Democratica’ due fondamenti istituzionali ben sicuri: ‘L’Italia è una repubblica democratica fondata sui diritti di libertà - e credo che nessuno in questa Assemblea voglia negare questo fondamento - e sui diritti del lavoro’. Questa è la parte costituzionalmente nuova del nostro progetto. Questa è la parte viva, nuova, fresca, socialmente avanzata della Costituzione".

Mi sembra, quindi, che questo problema delle libertà faccia parte del vostro DNA.

L’idea di fondo che bisognerebbe portare avanti consiste nell’aprire i mercati ovunque ciò risulti possibile e nell’intervenire con la regolazione in presenza di effetti di-storsivi e di limiti alla concorrenza che il funzionamento da solo del libero mercato non riesce ad eliminare. E’ necessario – cioè - miscelare, dosare la liberalizzazione con le regole. C’è bisogno di regole, ma occorre anche che si aprano spazi economici per mercati più efficienti, per consentire una libertà d’azione più forte rispetto a quella che abbiamo avuto fino ad ora.

Conseguenze

In conclusione, una forza politica liberaldemocratica non può che sostenere questo processo, comprendendo ed affrontando le difficoltà che sicuramente si incontreranno. Tra queste, grande attenzione - ma ho visto con quanta animosità e con quanta affettuosità ne ha parlato l’onorevole Nucara - meritano a mio avviso le conseguenze sociali, gli effetti sull’occupazione che potrebbero mostrare condizioni di particolare sofferenza nel breve termine. La ricerca di una maggiore efficienza porta spesso questi processi a generare condizioni di riduzione dell’occupazione, anche se l’efficienza del mercato a medio-lungo termine restituisce al mercato condizioni di sviluppo, facendo recuperare questo gap con risultati positivi in termini occupazionali. Nel breve periodo, tuttavia, il problema c’è e, per evitare conseguenze negative sotto l’aspetto sociale, sarebbe necessario inserire e considerare nei costi dei processi di liberalizzazione anche quelli relativi al prezzo che va pagato sul "fronte sociale", ipotizzando ammortizzatori e sistemi di protezione per chi si trova coinvolto in questi processi ed appartiene a categorie deboli, che rischiano di essere collocate in posizioni di marginalità o venire addirittura espulse dal mercato del lavoro.

Mi rendo conto che stiamo parlando di tutto questo in un momento in cui l’economia sta attraversando un periodo di grandi difficoltà. Ma noi economisti aziendali insegniamo all’Università che nelle imprese, proprio quando le condizioni del sistema ambientale diventano più avverse, proprio quando c’è maggiore difficoltà a mandare avanti un’attività imprenditoriale, proprio allora bisogna investire, ristrutturare, rimuovere le inefficienze, proprio allora bisogna trovare la forza e la volontà di innovare per essere attori e protagonisti del cambiamento e non soggetti passivi in balìa degli eventi, con l’obiettivo minimalista di cercare di garantirsi la semplice sopravvivenza.

E’ questo lo spirito con cui bisogna guardare al futuro, che deve spronarci verso obiettivi ambiziosi da cui dipende il recupero di efficienza ed il ripristino delle condizioni di sviluppo per il nostro Paese.

*Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese nella Facoltà di Economia della Seconda Università degli Studi di Napoli